Il termine Anepigrafo (dal greco an- “senza” ed epigraphē “iscrizione”) è impiegato in numismatica per descrivere una moneta, o una sua singola faccia, che presenta esclusivamente il tipo o l’immagine, senza alcuna leggenda o iscrizione testuale. Questo significa che non sono presenti scritte, sigle, date o nomi dell’autorità emittente.
La presenza di una moneta anepigrafa non è affatto indice di un errore o di una coniazione incompleta, ma è spesso una scelta deliberata dell’autorità emittente o una caratteristica delle emissioni più antiche. Nelle prime fasi della monetazione, in particolare quella greca arcaica, molte monete erano anepigrafe. Questo accadeva perché il tipo stesso (l’immagine, spesso un animale araldico, un simbolo cittadino o una divinità) era sufficiente a identificare la zecca di provenienza e a garantirne l’autenticità e il valore. La fama della città emittente o la riconoscibilità del simbolo erano tali da rendere superflua l’aggiunta di testo.
Esempi significativi si trovano nelle prime emissioni della Magna Grecia e della Sicilia, dove città come Selinunte con il suo prezzemolo, o Taranto con il suo taras sul delfino, producevano monete in cui il tipo parlava da sé. Anche in contesti successivi, o in particolari serie, possono apparire monete anepigrafe, talvolta per un’enfasi sul simbolismo dell’immagine o per la volontà di mantenere una certa sobrietà.
Per il numismatico, una moneta anepigrafa richiede un’attenta conoscenza dei tipi e degli stili monetari per poterne determinare l’origine. L’identificazione si basa quindi sull’analisi iconografica, sulle caratteristiche stilistiche dell’immagine, sul metallo, sul peso e, se possibile, sul contesto di ritrovamento. Nonostante l’assenza di scritte possa renderne più complessa la datazione o l’attribuzione precisa, le monete anepigrafe sono un’affascinante testimonianza di come l’immagine potesse, in determinate epoche, essere l’unico e sufficiente veicolo del messaggio monetario.

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